Marcel Proust e la morte delle cattedrali
Il grande romanziere spiega come solo la solenne liturgia della Messa sia adatta alla sublime bellezza del più alto frutto dell'arte cristiana medioevale
Del grande autore della Recherche si sa che fu uno dei massimi romanzieri dell’età moderna, e forse di tutti i tempi, in misura minore si sa che fu studioso di Ruskin[1] e che fece dell’arte uno dei suoi campi di investigazione preferiti. Meno noto è il fatto che Proust ha fornito, con alcune delle sue riflessioni, buoni argomenti di natura estetica per una difesa della Tradizione Cattolica.
In un piccolo volume, intitolato In memoria delle chiese assassinate,[2] che altro non è che una raccolta di scritti dell’autore sulle cattedrali gotiche, Proust parla in larga misura di Ruskin, della sua estetica e in generale della sua opera. Ma nell’ultimo capitolo, che porta il titolo di La morte delle cattedrali, egli mostra di aver compreso il valore incommensurabile delle cerimonie liturgiche cattoliche che hanno animato le grandiose creazioni del gotico.
Ovviamente queste riflessioni non nascono -in Proust- per fini apologetici, anzi, lui parla esclusivamente da studioso di estetica, ma, come accennato, ne possiamo ricavare un profondo insegnamento, che, in parte, aveva già dato anche Ruskin.
Non è nostra intenzione fare un panegirico di tutto ciò che ha fatto o scritto un autore la cui vita non fu esente da gravi colpe e scandali. Il nostro, è il semplice usufruire di verità espresse da studiosi non cattolici, al fine di comprendere sempre meglio la Chiesa e la sua santa Tradizione, sull’esempio dei Padri e della Scolastica che con sapienza hanno tratto il bene anche dalle opere di autori pagani.
Per cominciare chiariamo la riflessione fornitaci da Proust, sulla scia di Ruskin, riguardo alla bellezza delle cattedrali; la speculazione dei due grandi esteti verte su una co-implicanza, ovvero la relazione verità-bellezza. Diamo la parola all’autore: «Ed egli [Ruskin] vedeva poi l’arte declinare insieme con la fede[3], e l’abilità prendere il posto del sentimento. Osservando il potere di creare la bellezza che fu il privilegio delle età di fede, la sua credenza nella bontà della fede si doveva trovare rafforzata[4]».
Da queste parole si possono dedurre già molte cose. Ma prima è necessario una premessa di natura metafisica. Innanzi tutto, va ricordato che sia l’essere vero che l’essere bello sono attributi trascendentali dell’ente, e sebbene la tradizione metafisica tomistica sia divisa riguardo l’attribuire alla bellezza il carattere di trascendentale, una soluzione “di compromesso” sta nel vedere la trascendentalità della bellezza innestata e dipendente dalla bontà stessa dell’ente. Questa soluzione è ammessa, per esempio, dal Carosi[5], e sta nell’affermare la derivazione del carattere della bellezza dal carattere della bontà. In poche parole, se non c’è bontà non c’è bellezza. Ovviamente non stiamo dicendo che le due cose coincidano o che non ci siano diversità nelle operazioni dell’anima che fanno sorgere.
Non si può negare un carattere profetico nelle parole di Proust, che qui tocca un punto fondamentale: su un piano meramente storico sappiamo che il Duecento rappresentò l’apogeo della civiltà cristiana. Questo significa che la vita di fede era profonda e capace di guidare anche l’arte verso vette di bellezza inarrivabili.
Proust parte facendo un’astrazione: egli immagina che ne sarebbe delle cattedrali se il cattolicesimo come religione fosse finito da tempo immemore. Continua notando che il loro significato e la loro natura, alle persone del momento, risulterebbero oscuri, come le parole di una lingua ormai obliata. Egli, inoltre, nota che, se la scienza giungesse a conoscere filologicamente la natura dei riti che si svolgevano nelle grandi chiese gotiche, si potrebbero organizzare delle rievocazioni liturgico-cerimoniali al fine di mostrare al pubblico il ruolo rivestito da quei luoghi fino a un momento prima indecifrabili.
Nel caso di una simile ipotetica rievocazione artificiale dei riti liturgici antichi, così come nel pubblico non «dimora l’anima del passato», nemmeno negli operatori dei riti -per quanto «possano essersi impregnati dello spirito dei testi»- abita la vera natura dell’antica liturgia.
Proust non tarda a notare che: «[…], non si può fare a meno di pensare a come queste feste dovevano essere più belle ai tempi in cui erano i sacerdoti che celebravano le messe, non per offrire ai letterati un’idea di tali cerimonie, ma perché avevano, nella virtù di questi riti, la stessa fede degli artisti che scolpirono il giudizio finale nel timpano del portale o dipinsero le vite dei santi sulle vetrate dell’abside»[6]. Paragona poi i falsi fedeli presenti alle funzioni rivissute teatralmente a delle «fredde comparse ammaestrate» che non si inginocchiano all’elevazione perché questa, e tutta la cerimonia, sono segni che rimandano al rinnovamento del Sacrificio di Cristo, ma solo perché un insolito e bizzarro copione prescrive quel movimento delle gambe in corrispondenza cronologica con determinati gesti, lontani e silenziosi, che un “ministro” compie a un dato momento della rappresentazione “teatrale”[7]. La verità è che la modalità con cui questi “fedeli” assistono ad una messa (teatrale per giunta) è ben diversa da quella di un autentico popolo di seguaci di Cristo; questa differenziazione si dà anche nei dettagli più nascosti: che sia la velocità con cui ci si genuflette, che siano gli occhi magari inumiditi di lacrime, o i capi reclinati con devozione e sincero amore, o ancora gli sguardi fissi e quasi angosciati sui movimenti del sacerdote, come se stessero vivendo con lui e accanto a lui il Sacrificio della croce.
Continua però Proust dicendo: «[…] per immaginare com’era una cattedrale del Duecento da viva e nel pieno esercizio delle sue funzioni non abbiamo bisogno di farne la cornice di ricostruzioni, di retrospettive magari esatte, però gelide. Non abbiamo che a entrare a qualsiasi ora mentre si celebra una messa»[8]. Va poi avanti: «Si può dire che grazie alla sopravvivenza dei medesimi riti nella Chiesa Cattolica e, d’altra parte, della fede cattolica nel cuore dei Francesi, le cattedrali non sono soltanto i più bei monumenti della nostra arte, ma sono gli unici che vivano ancora integralmente la propria vita, gli unici rimasti in rapporto con lo scopo per cui furono costruiti»[9].
A questo punto dobbiamo porci questa importante domanda: oggi vivono le cattedrali? Il loro fine è rispettato? Oppure la nuova Messa di Paolo VI è infedele allo spirito austero e devoto con cui furono eretti questi monumenti? Noi riteniamo che l’infedeltà sia talmente palese che solo una persona ideologicamente accecata potrebbe pensare che le chitarre elettriche, i tamburelli, i balletti etnici, l’invasione dello spazio sacro con elementi profani siano cose rispettose del fine proprio delle grandi cattedrali del passato: adorare Dio e rendergli il culto che gli è dovuto.
Oggi, assai spesso, la liturgia moderna è travisata anche in quel poco di sacro che contiene. Il significato che si dà a quella che dovrebbe essere la ripresentazione mistica della Passione e della Morte di Nostro Signore Gesù Cristo, sembra essere più quello di una commemorazione solo dell’Ultima Cena -in quanto tale- durante la quale si riceve, solo simbolicamente, il corpo di Cristo; in tale contesto il popolo dei fedeli si riunisce solo per ricordare quello che fu l’unico autentico spargimento di sangue del Cristo e non per assistere al suo rinnovarsi incruento.
A questo proposito è fondamentale quello che dice successivamente Proust: «Quando il sacrificio della carne e del sangue di Cristo non sarà più celebrato nelle chiese, in esse non ci sarà più vita. La liturgia cattolica forma un tutto unico con l’architettura e la scultura delle nostre cattedrali, perché deriva dalla stessa simbologia»[10]. In effetti le realizzazioni dell’arte cristiana sono tutte impregnate della simbologia del Sacrificio.
Proust suffraga la sua interpretazione citando ampi stralci da un’opera di Emile Mâle, molto belli e interessanti dal punto di vista del valore della simbologia liturgica[11].
Interessanti anche alcune osservazioni sulla musica sacra: «Il medesimo simbolismo [quello citato da Male] comprende persino la musica che si fa udire nell’immensa navata, musica in cui i sette toni gregoriani rappresentano le sette virtù teologali e le sette età del mondo»[12]. Com’era grande la musica cristiana che nella sua bellezza e armonia racchiudeva i santi simboli della religione! I modernisti non dovrebbero dimenticare che è grazie alla bellezza del canto gregoriano (il Magnificat per la precisione) che Paul Claudel è ritornato alla fede, è grazie ad essa (nel suo caso i vespri) che Tchaikovsky ha composto la Liturgia di San Giovanni Crisostomo di cui L’inno del cherubino rappresenta l’apice estetico.
Non si può non fare una riflessione ora su quelli che sono stati i frutti artistici del post-concilio. Rammentando il binomio Verità-Bellezza, dobbiamo ragionare secondo un fondamentale principio metafisico: la natura degli effetti riflette la natura della causa. E gli effetti architettonici della rivoluzione liturgica, sono sotto gli occhi di tutti. E dunque, se è vero che là dove non c’è bellezza, non c’è nemmeno verità, allora con il Concilio Vaticano II (e con la bruttezza della liturgia e dell’architettura ecclesiastica che ha prodotto) non si è rispettato il Logos cristiano, o quantomeno non si direbbe che le odierne realizzazioni nel campo dell’arte sacra riflettano lo stesso Logos che riflettevano le cattedrali gotiche.
Inoltre, se il decadimento dell’arte constatatosi nella modernità si è infiltrato anche nella Chiesa Cattolica, ciò significa che si è insinuato all’interno di Essa lo spirito immanentista e soggettivista, significa che si è perso il Centro anche nella Chiesa, che, al contrario deve essere il porto e la fortezza della Verità contro la temperie ideologica imperversante nel mondo contemporaneo.
Come sanare anche solo in parte le piaghe terribili che affliggono una civiltà apparentemente perduta? Ebbene la risposta è semplice, tornare alla Bellezza vera, archetipica ed eterna incarnata teologicamente da Gesù Cristo nostro Signore e Salvatore. Ovvero far vivere Dio in noi e vivere noi in Lui al fine di essere autenticamente santi e, di conseguenza, ritrovare anche la vera bellezza, che altro non è che la partecipazione contingente e finita della Bellezza di Dio che è Luce eterna e balsamo dello spirito. Santificarsi è la chiave di volta: non esiste un’altra via.
«O Luce Invisibile, noi Ti glorifichiamo!» (T.S. Eliot, Cori da «La Rocca», canto X).
(articolo di Benedetto D’Amico)
[1] John Ruskin (1819-1900), inglese, grande storico e critico dell’arte, teorico di un originale socialismo cristiano, critico del moderno modello capitalista liberale e individualista, ebbe una profonda influenza su molti intellettuali della sua epoca.
[2] M. Proust, In memoria delle chiese assassinate, Palomar edizioni, Bari 2008.
[3] Si tenga presente questa considerazione alla fine dell’articolo.
[4] M. Proust, op. cit., pp. 80-81 (corsivi nostri).
[5] G. P. Carosi, Elementi di filosofia, vol. IV (Ontologia), ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1961; confronta anche Guido Berghin-Rosè C. M., Elementi di filosofia vol. II (ontologia) p. 76, ove si dice: «A questi [le proprietà dell’unità, della verità e della bontà] si possono aggiungere l’ordine e la bellezza che si può dire derivino da essi […]». (Corsivi nostri). Anche il Varvello dà alla bellezza il carattere di trascendentale sebbene non esplichi il discorso nei nostri termini: «In qualche senso si può dire che essi pure sono fra loro convertibili, così che ogni ente sia bello ed ogni bello sia ente. Ma, per intendere ciò rettamente, bisogna distinguere l’ente considerato specificamente e l’ente considerato individualmente: […ovvero], distinguere le cose considerate astrattamente, nella loro essenza specifica, e le cose stesse considerate concretamente, nelle loro condizioni individuali.» Francesco Varvello, Istituzioni di filosofia (recate in italiano e compendiate dal Dott. Matteo Ottonello), vol. II (metafisica), SEI, Torino 1941, p. 36. Si possono consultare anche Institutiones philosophicae, vol. II (Metaphysica), Typis archiepiscopalibus 1890, p. 98, § 369; e ancora Anonymous, Philosophiae Christiane cum antiqua et nova comparate Caietani ecc…, vol. II (Ontologia), Napoli 1888, p. 34-35.
[6] M. Proust, op. cit. pp. 106-107. C’è dunque anche una simpatia tra la liturgia e la realizzazione artistica che la contiene.
[7] Se si vuole questo è in parte l’atteggiamento anche del cristiano tiepido. Dinnanzi agli occhi di quest’ultimo, la messa è una scocciatura colma di inutile ritualistica, un agglomerato di vecchiume del passato a cui però occorre assistere per dei motivi non meglio precisati o compresi.
[8] M. Proust, op. cit., p.107.
[9] Ibidem.
[10] M. Proust, op. cit., p. 108. Si noti che l’intuizione si può ampliare a tutte le forme d’arte autenticamente cristiana.
[11] M. Proust, op. cit., pp. 108-111.
[12] M. Proust, op. cit., p. 111.